Immagina di vivere in un mondo dove ogni informazione che ricevi è stata selezionata per farti piacere. Ogni notizia che leggi, ogni video che guardi, ogni post che scorre nel tuo feed è costruito attorno ai tuoi interessi, ai tuoi valori, alle tue emozioni. Sembra comodo, vero? Ma c’è un piccolo problema: quando tutto ciò che vedi conferma le tue idee, smetti di chiederti se siano davvero giuste.
Benvenuti nell’era dell’algoritmo, dove la realtà che percepiamo non è più oggettiva, ma filtrata, distorta e personalizzata. Un’illusione su misura, creata per massimizzare il nostro tempo online e, di conseguenza, i profitti delle piattaforme digitali.
Il grande Truman Show digitale.
Ricordi The Truman Show? Truman Burbank vive in una realtà perfetta, costruita intorno a lui, dove tutto sembra autentico. Solo che… non lo è. Ogni dettaglio è pensato per tenerlo dentro un copione, per impedirgli di vedere il mondo vero.
Ora, alzi la mano chi non si è mai sentito come Truman scrollando i social.
I contenuti che vediamo online non sono casuali: sono il risultato di calcoli precisi, di un’intelligenza artificiale che ha un solo obiettivo: tenerci attaccati allo schermo il più a lungo possibile. E come ci riesce? Creando un mondo dove tutto ci sembra interessante, dove tutto ci fa arrabbiare o emozionare al punto giusto.
L’algoritmo è furbo. Sa che ci annoiamo facilmente, quindi ci dà dosi sempre più intense di contenuti che sappiamo già di voler vedere. Se sei appassionato di benessere, ti troverai immerso in video di nutrizionisti, fitness coach e meditazione. Se segui notizie di politica, inizierai a vedere sempre più spesso le stesse opinioni, rafforzando le tue convinzioni.
Il problema? Questo crea una bolla in cui tutto sembra confermare ciò che già pensiamo. E quando incontriamo un’idea diversa, il nostro cervello la rifiuta automaticamente, perché non fa parte della narrazione che ci siamo costruiti.
Il libro:
Questo libro esplora come i media digitali, gli algoritmi e i social network abbiano trasformato il nostro modo di percepire la realtà. Analizza il ruolo dei filtri cognitivi e tecnologici nel creare bolle informative, alterando la nostra capacità di distinguere il vero dal falso. Kyle Chyka ci mostra come la personalizzazione estrema dell’informazione e la viralità dei contenuti abbiano portato a una società polarizzata, dove la manipolazione dell’opinione pubblica è diventata più facile che mai.
Attraverso un’analisi dettagliata della comunicazione contemporanea, l’autore esamina il potere dei grandi colossi digitali e il modo in cui influencer, media e aziende usano la narrazione per plasmare la nostra visione del mondo. La riflessione finale si concentra sulla necessità di sviluppare una consapevolezza critica per non essere schiavi delle distorsioni imposte dalla tecnologia.
Per l’autore viviamo in un’epoca di personalizzazione assoluta (il che è vero, basta pensare ai grandi cambiamenti di algoritmo, che da feed cronologici sono diventati plasmati su misura di utente).
Ogni nostra esperienza digitale – dai video consigliati su YouTube ai suggerimenti di Netflix, dalle playlist di Spotify ai post che vediamo su Instagram – è costruita su misura per noi. Un mondo dove tutto sembra essere pensato per adattarsi perfettamente ai nostri gusti, ai nostri bisogni, alle nostre abitudini.
Ma c’è un problema. Più il mondo diventa “su misura” per noi, più smettiamo di accorgerci di quanto sia controllato.
Nel suo libro Filtered World, esplora il fenomeno della “iperpersonalizzazione” dell’esperienza digitale e il suo impatto sulla nostra percezione della realtà. Ci mostra come, paradossalmente, questa personalizzazione che dovrebbe renderci più liberi ci renda invece più prevedibili, più manipolabili, più confinati in una versione ridotta e semplificata del mondo.
Il risultato? Un’esistenza sempre più guidata da algoritmi invisibili, in cui la spontaneità viene soffocata e la scoperta diventa un’illusione. Non siamo più noi a esplorare il mondo, ma è il mondo a essere filtrato per adattarsi a noi.
Il comfort dell’algoritmo: un filtro che ci protegge… o ci isola?
Se apri TikTok, Instagram o YouTube, noterai un fenomeno curioso. Più usi queste piattaforme, più il contenuto che ti viene mostrato sembra “azzeccato”. I suggerimenti diventano sempre più pertinenti, i video sempre più in linea con i tuoi interessi. In pochi giorni, il tuo feed si trasforma in un riflesso perfetto di ciò che ti piace.
Ma questo processo ha un effetto collaterale inquietante: più i contenuti si adattano a noi, meno siamo esposti a nuove idee, nuove prospettive, nuove esperienze. A meno che non siamo noi a cercarle.
Chayka chiama questo fenomeno “personalizzazione ambientale” (ambient personalization), e lo descrive come una forma di manipolazione soft, quasi impercettibile. Un filtro che non viene imposto con la forza, ma che ci avvolge lentamente, rendendoci sempre più dipendenti da un ambiente digitale che ci conferma e ci rassicura, invece di sfidarci e metterci in discussione.
Se da un lato questa personalizzazione ci risparmia il fastidio di dover cercare attivamente le cose che ci interessano, dall’altro crea una bolla invisibile che ci isola da tutto ciò che potrebbe metterci a disagio.
E così, senza accorgercene, iniziamo a vivere in un mondo sempre più prevedibile, sempre più uniforme, sempre più controllato.
Dov’è finita la scoperta?
Il grande paradosso dell’era digitale è che abbiamo accesso a più informazioni e contenuti che mai, eppure stiamo scoprendo sempre meno.
La personalizzazione dell’esperienza online ha reso la scoperta prevedibile. Non dobbiamo più cercare attivamente, perché è tutto già pronto per noi, selezionato e confezionato dall’algoritmo. Ma questo significa che non stiamo veramente esplorando il mondo, stiamo solo scorrendo dentro una versione su misura di esso.
L’autore ci invita a riflettere su questo:
- Se tutto quello che leggiamo conferma quello che già sappiamo, quando è stata l’ultima volta che abbiamo cambiato idea su qualcosa?
- Se ogni esperienza è costruita per essere perfettamente in linea con i nostri gusti, quando è stata l’ultima volta che abbiamo provato qualcosa di veramente nuovo?
- Se ogni luogo che visitiamo sembra già familiare, che fine ha fatto la sorpresa?
Viviamo in un mondo in cui l’incertezza è stata eliminata. Ma senza incertezza, senza imprevisti, senza attriti, possiamo ancora parlare di esperienza autentica?
Perché le fake news viaggiano più veloci della verità
Ma c’è un altro lato oscuro di questo meccanismo. Gli algoritmi non solo personalizzano ciò che vediamo, ma danno priorità ai contenuti che generano più interazioni. E sai cosa crea più interazione?
La rabbia. Il conflitto. Lo shock.
Le fake news, le teorie complottiste, le narrazioni distorte proliferano perché sono emotivamente cariche. Se leggi un titolo come “Il governo vuole controllarti attraverso il 5G”, è molto più probabile che tu reagisca – magari indignandoti o commentando – rispetto a un titolo neutro come “Nuove infrastrutture per le telecomunicazioni in fase di sviluppo”.
E qui sta il punto: l’attenzione è la nuova moneta.
Più una notizia è sensazionalistica, più viene condivisa. Più viene condivisa, più viene considerata “vera”. E più viene considerata vera, più influenza il nostro modo di vedere il mondo. Questo è un circolo vizioso che sta letteralmente riscrivendo la nostra percezione della realtà.
Il libero arbitrio esiste ancora?
Prendiamo un attimo di pausa dalla solita programmazione e facciamo un salto nella fantascienza. Matrix. Westworld. The Truman Show. Storie che ruotano tutte attorno alla stessa, inquietante domanda: siamo davvero liberi di scegliere, o stiamo solo eseguendo un copione scritto da qualcun altro?
Oggi, nel mondo iperconnesso e filtrato dagli algoritmi, questa domanda non è più solo un esercizio filosofico da bar (o da subreddit cospirazionista). È il cuore della nostra esistenza digitale. Quando apri Instagram, quando fai una ricerca su Google, quando decidi cosa guardare su Netflix, hai davvero il controllo? Oppure è l’algoritmo che ti offre un’illusione di scelta, presentandoti solo opzioni che sa già che ti piaceranno?
Il libero arbitrio si basa sulla possibilità di esplorare, di sbagliare, di essere esposti a idee scomode, di cambiare opinione. Ma se tutto ciò che vediamo è selezionato per confermare le nostre convinzioni, come possiamo ancora parlare di scelta? Se i nostri gusti, le nostre emozioni e persino le nostre relazioni sono plasmati da un feed ottimizzato per massimizzare il nostro engagement, fino a che punto siamo davvero noi a decidere?
Il rischio è quello di diventare protagonisti di un The Truman Show collettivo, dove il mondo appare vasto, libero e aperto, ma in realtà è un set costruito intorno a noi, con scenari e comparse pensate per tenerci tranquilli nella nostra bolla personalizzata. E la cosa peggiore? Come Truman all’inizio del film, non ci rendiamo nemmeno conto di essere intrappolati.
La soluzione: imparare a vedere il filtro.
Se c’è una via d’uscita, non sta nel disconnettersi completamente (anche perché, dai, siamo realisti: non sopravvivremmo più di 48 ore senza Google Maps e Spotify). La soluzione sta nel vedere il filtro per quello che è. Nel riconoscere i meccanismi che modellano la nostra percezione e rifiutarsi di essere solo spettatori passivi.
Pensa a quando guardavi The Truman Show e a un certo punto ti sei accorto che qualcosa non tornava. Il sole che sorge sempre alla stessa ora. La radio che annuncia esattamente ciò che Truman sta per vedere. I vicini di casa che ripetono ogni mattina le stesse frasi. Ecco, il nostro mondo digitale funziona nello stesso modo.
Se ci alleniamo a cogliere gli schemi, a notare le coincidenze sospette, possiamo iniziare a ribaltare il gioco.
- Quando il tuo feed ti mostra sempre le stesse notizie, chiediti cosa stai non vedendo.
- Quando un contenuto scatena una reazione emotiva estrema, chiediti chi ci sta guadagnando dal tuo coinvolgimento.
- Quando senti che il mondo è più prevedibile e monotono, forza la mano e cerca attivamente esperienze che l’algoritmo non ti consiglierebbe mai.
Imparare a vedere il filtro significa riappropriarsi della possibilità di scegliere, di esplorare, di uscire dalla nostra zona di comfort digitale. Significa, in poche parole, riprendersi il libero arbitrio. E forse non ci libereremo mai completamente dall’influenza degli algoritmi, ma possiamo almeno smettere di essere delle marionette nelle loro mani. Siamo Truman, sì. Ma possiamo essere anche quelli che cercano la porta d’uscita.
Essere unici significa essere consapevoli.
La vera unicità, in un mondo che cerca di omologarci, non sta nel vestirsi in modo stravagante o nell’avere opinioni radicali. Sta nell’essere capaci di pensare in modo critico. Di riconoscere quando un contenuto sta cercando di manipolarci. Di scegliere di non farci risucchiare da narrazioni preconfezionate.
Immagina di essere in mezzo a una folla. Intorno a te, voci ovunque. Alcune gridano, altre sussurrano, altre ancora ripetono le stesse frasi come un mantra ipnotico. Ogni suono è studiato per attirare la tua attenzione, per farti voltare nella direzione giusta, per farti credere che l’unica realtà possibile sia quella che ti viene mostrata.
Ora immagina di provare a parlare. Di dire qualcosa di tuo. All’inizio la tua voce è soffocata dal rumore. Poi, pian piano, cominci a sentire un’eco, una ripetizione che non viene da te. Ti rendi conto che anche il tuo messaggio è stato modellato, piegato, digerito dal sistema e risputato fuori in una versione più accettabile, più commerciabile, più “adatta al pubblico”.
E allora, la domanda è: quanto di quello che dici è davvero tuo? Quanto della tua comunicazione, del tuo modo di raccontarti, del tuo brand è frutto di una scelta consapevole e quanto è stato plasmato da un ambiente digitale che premia solo certe narrazioni?
Per me, il marketing non è solo una questione di strategia. È un atto di resistenza.
Ed è proprio qui che il marketing etico e consapevole può fare la differenza. Io ci credo profondamente: aiutare le persone a comunicare non significa solo insegnare strategie o tecniche, ma anche fornire loro gli strumenti per navigare un mondo sempre più complesso senza perdere se stessi.
Perché alla fine, la libertà di pensiero non è qualcosa che ci viene data. È qualcosa che dobbiamo riconquistare ogni giorno.
Non comunicare per piacere, comunica per essere.
Siamo in un’epoca in cui il successo online sembra ridursi a un gioco di formule: il reel da 7 secondi, il copy perfetto, il trend da cavalcare. Tutto è ottimizzato per la viralità, tutto è pensato per generare il massimo dell’interazione con il minimo dello sforzo mentale. Ma in questo schema, dove finisce la voce autentica? Dove finisce l’unicità?
Quando lavoro con i miei clienti, non insegno solo a usare gli strumenti del marketing. Li aiuto a riappropriarsi della loro voce. A riconoscere che non devono essere perfetti, che non devono rincorrere ogni tendenza, che la loro unicità non sta nell’essere “adatti all’algoritmo”, ma nel sapersi raccontare con coraggio, anche quando il sistema sembra dire il contrario.
Perché la libertà di pensiero non è qualcosa che ci viene data. Nessuna piattaforma ce la regalerà. Nessun algoritmo ci spingerà verso la profondità. Dobbiamo riconquistarla, pezzo dopo pezzo, parola dopo parola.
E il primo passo per farlo è smettere di comunicare per piacere agli altri e iniziare a comunicare per essere noi stessi.